26 aprile 2020 - 3a di PASQUA
Atti 2,14a.22-33 / 1Pietro 1,17-21 / Luca 24,13-35
Si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero (Lc 24,31)
L’episodio evangelico dei discepoli di Emmaus è un capolavoro letterario e nello stesso tempo il cammino di fede di ogni discepolo: ci indica cioè come sia possibile per ognuno, in ogni tempo, incontrare il Risorto. Se i due discepoli non lo sanno riconoscere immediatamente è perché il Risorto vive una vita divina e non bastano gli occhi della carne mortale per riconoscerlo; occorre innanzitutto lo sguardo della fede. Per questo Gesù offre loro una più profonda conoscenza delle Scritture e, attraverso di esse, dello scandalo della passione, che si è realizzato in Lui: la vita del Messia doveva essere attraversata dalla sofferenza e dal rifiuto per entrare nella gloria.
Dopo aver conversato con loro, Gesù fa come se dovesse andare oltre. E nasce dal cuore dei due un’invocazione: “resta con noi”: la nostra vita senza di te, il Signore, è vuota. La cosa più bella è poter ospitare Gesù nella propria casa, nella propria vita. Per poterlo riconoscere però è necessario implorarne la presenza e chiedergli di entrare là dove giorno per giorno ognuno costruisce se stesso, nella propria esistenza. Ed essi riconoscono in colui che ora spezza per loro il pane, come prima aveva donato la Parola, Gesù, il Crocifisso Risorto. D’ora in poi la Comunità può incontrare il suo Signore nell’Eucaristia e lì vivere la sua morte e risurrezione come dono per la vita del mondo. Il proclamare la Parola e condividere il Pane sono i “segni” che permettono anche a noi di riconoscere il Risorto. Chiediamo che l’esperienza dei due discepoli di Emmaus sia modello del nostro essere Chiesa.
ALL’UNIVERSITÀ
Da due settimane ho ripreso i miei studi all’università, dopo averli sospesi per un anno in cui ho vissuto una vita intensa di comunione insieme ad altri sacerdoti.
Ricominciare adesso gli studi, dopo quella esperienza, per me è stato un po’ duro, tanto più che l’ambiente universitario, in cui mi trovo, mi sembra freddo e senza rapporti veri. Ma capivo che tutto dipendeva da me, se io incominciavo ad amare veramente.
Tutto questo, che era ancora piuttosto un’intuizione, qualche giorno fa l’ho sperimentato. Nell’intervallo tra due lezioni mi sono incontrato con un ragazzo che conoscevo appena di vista. Si avvicina e mi domanda come si svolge la mia vita, e io gli spiego che con altri cinque abito in un appartamento, e che cerchiamo di vivere una vita di comunione autentica, evangelica. Lo vedo molto compiaciuto, e poi mi parla di sé: mi esprime le difficoltà che trova in collegio, come si sente solo e senza rapporti con i compagni. Avrei voluto subito invitarlo a passare una giornata con noi, ma ho continuato ad ascoltarlo. E lui mi parla della sua vocazione, del suo rapporto con Dio, e persino delle sue difficoltà affettive.
Attorno a noi, nel corridoio affollato, gli altri studenti discutevano, ma per me, in quel momento che lui parlava, era come se al di fuori di lui non ci fosse nessuna altra cosa al mondo. Spontaneamente sentivo la necessità di essere vuoto davanti a lui, vuoto anche di quella gioia e di quella libertà che senti quando incominci ad amare.
Sicché, alla fine, lui mi domanda di andare insieme in cappellina a pregare un po’. Questo per me è stato bello, perché mi sembrava che tra di noi fosse nato un vero rapporto da fratelli, in cui ogni cosa si fa con la massima semplicità. Mi sembrava di aver trovato il mio modo di essere nell’università.
A. A.
• Commenti a cura di Giovanni Castegnaro
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